A volte un genitore sceglie di non raccontare per intero la realtà, ma di ricorrere a eufemismi come “è partito per un lungo viaggio”. Queste frasi però rischiano di sconvolgere ancora di più il bambino e di fargli perdere fiducia nell’adulto. La dottoressa Claudia Tropeano, psicoterapeuta, ti spiega invece come è meglio parlare ai più piccoli.
In questi giorni hai dovuto avere a che fare con un’esperienza molto intensa e per certi versi brutale: la perdita quasi improvvisa di una persona cara. Nella maggior parte dei casi ha iniziato ad avere un po’ di febbre e ad emettere qualche colpo di tosse, poi la temperatura corporea è salita e i suoi polmoni non sembrano essere più in grado di funzionare. Da quando l’ambulanza l’ha portata d’urgenza in ospedale, non hai più potuto vederla. Nemmeno dopo che una telefonata ti ha avvertito dell’avvenuto decesso.
E come te, sono in tanti quelli che oggi piangono un genitore, un parente o un amico a cui non hanno potuto dire addio. Tra loro, ci sono anche bambini. A differenza di quello che potresti pensare, anche i più piccoli avvertono forte quel senso di mancanza, quel non riuscire a capire fino in fondo cosa sia accaduto, quel non accettare la scomparsa. E anche loro hanno bisogno di elaborare il lutto. Ma come puoi spiegare un evento così tragico a tuo figlio? Abbiamo rivolto questa domanda alla dottoressa Claudia Tropeano, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale che collabora con il centro di Psicologia per l’Infanzia, l’Adolescenza e la Famiglia Amamente di Milano.
Dottoressa Tropeano, come si può preparare un bambino a ricevere una notizia di questo tipo?
Prima di tutto, è importante che il bambino apprenda quello che è successo dalla persone di cui si fida di più, come il proprio genitore o un suo punto di riferimento nella famiglia. Inoltre, è necessario il contatto fisico e quindi l’adulto lo può prendere per mano o abbracciarlo, per fargli avvertire la vicinanza. Per aiutarlo ad elaborare le emozioni che lo coglieranno, una buona idea è quella di anticiparle e cominciare il discorso con frasi del tipo “sto per dirti qualcosa che potrebbe spaventarti o farti sentire triste”, perché il bambino è in una fase di crescita e non riesce a dare un nome a tutto quello che avverte dentro di sé.
Mentre si spiega cosa è accaduto è meglio raccontare la verità o utilizzare altre parole, magari eufemismi?
Bisogna cercare di essere il più sinceri possibile, tenendo naturalmente conto della sua età e del livello evolutivo. Spesso i genitori ricorrono a frasi del tipo “l’abbiamo perduto”, oppure “è dovuto partire per un lungo viaggio”, ma si rischia di generare dei fraintendimenti e di aumentare il senso di confusione nel bambino. Potrebbe ad esempio attendere invano il ritorno da questo viaggio o sentirsi tradito e abbandonato da questa partenza improvvisa e ingiustificata.
I più piccoli hanno infatti un pensiero concreto e legato ai dati di realtà, quindi è meglio ricorrere a parole a lui comprensibili e spiegare la verità. Inoltre, è importante non dire che la persona è morta perché era malata: potrebbe creare l’idea errata che tutti quelli che contraggano una malattia, anche banale, non sopravvivono e potrebbe quindi spaventarsi anche di fronte a semplici malesseri. Meglio quindi raccontare che è morto perché alcune parti del suo corpo non funzionavano più, perché il cuore ha smesso di battere e così via.
Come può reagire il bambino a una simile notizia?
Può succedere che rifiuti la realtà e inizi a porre una serie di domande riguardo questa assenza improvvisa. Il ruolo del genitore, o dell’adulto in quel momento, è quello di accogliere le loro emozioni e fornire delle risposte e quando non si hanno, dire semplicemente “non lo so”. È difficile, ma è molto importante.
In ogni caso, non bisogna neanche mostrarsi come dei supereroi, per paura che i propri sentimenti possano sconvolgere il bambino. È importante che il bambino capisca l’emozione della tristezza, perché solo così potrà avere l’opportunità di elaborarla. Il rischio altrimenti è che questa scoppi in maniera disfunzionale e si trasformi in rabbia. Solo la presenza fisica dell’adulto di riferimento lo può rassicurare e solo la persona che lo conosce bene può aiutarlo a gestire la sua emotività.
In questo periodo non è possible celebrare il funerale, può essere un ostacolo all’elaborazione del lutto?
Si discute spesso sull’opportunità o meno di far partecipare un bambino al funerale di un parente deceduto. Molto dipende dalla sua età e di solito noi psicologi consigliamo di lasciarlo libero di scegliere, soprattutto quando ha ormai raggiunto i 4 o i 5 anni. Questo non significa obbligarli a vedere il defunto, ma fargli sentire in modo concreto che è avvenuta questa perdita.
Oggi però queste commemorazioni collettive non sono possibili e quindi il consiglio è quello di celebrare un piccolo rito in casa, che agisca come conferma della realtà della morte. Può anche trattarsi banalmente di un pensiero da scrivere o un disegno da mettere in quella che diventa la scatola dei ricordi. Quello diventerà poi uno scrigno che, per definizione, contiene cose preziose e da conservare. Sarà una forma di saluto, ma anche un aiuto per le fasi successive dell’elaborazione del lutto e tornerà utile ogni volta che il bambino rivivrà quello stato depressivo legato alla presa di coscienza che quella persona cara non è più presente.
Ha parlato di elaborazione del lutto, come avviene per un bambino?
I più piccoli attraversano le stesse fasi degli adulti. Partono quindi con un momento di negazione e di incredulità rispetto alla notizia. Per questo motivo, non raccontare, non rispondere alle domande e provare a distrarre il bambino non lo aiuta, anche se ci sembra di assumere un atteggiamento protettivo nei suoi confronti. Stiamo invece sottovalutando la sua capacità di affrontare le esperienze dolorose e rischiamo di rompere quel rapporto di intimità e fiducia che ci deve essere all’interno di un nucleo famigliare. Solo in questo modo si può arrivare all’ultima fase, ovvero l’accettazione di una condizione diversa della realtà, senza la presenza della persona cara.
E una volta terminato il rito commemorativo, cosa si può fare?
È fondamentale riprendere al più presto la routine quotidiana, perché aiuta a fornire quel senso di sicurezza e stabilità che con la morte è venuto meno. Può succedere, ad esempio, che il bambino abbia difficoltà a concentrarsi o ad addormentarsi, oppure che sia abbia un atteggiamento più irritabile. Il genitore deve saper leggere e accogliere le sue difficoltà e aumentare anche il contatto fisico, perché alimenta il senso di vicinanza e sicurezza nel figlio. È utile anche promuovere il rapporto con parenti e amici (anche se in questo momento solo virtuale), in modo che il bambino trovi uno spazio per dialogare ed esprimere le proprie emozioni con le persone più care, da cui potrà ricevere un supporto psicologico. Solo così può sentirsi meno solo nell’avere a che fare con un fardello di emozioni così sconvolgenti.
Quindi è dalla famiglia che deve arrivare il primo sostegno psicologico?
Esatto, deve essere fornito dai genitori o dalla figura di riferimento più vicina. E soprattutto bisogna essere pronti a riconoscere nel bambino anche reazioni di rabbia o di aggressività, che possono verificarsi soprattutto a partire dai 5 o dai 7 anni, ovvero quando avverte il malessere e inizia a riconoscere le emozioni, ma non le sa ancora gestire. Quella rabbia che viene espressa non deve essere trattenuta, ma accolta e spiegata.
Quando invece la persona è ancora viva, ma deve essere portata via d’urgenza in ambulanza e non si è sicuri se riuscirà a sopravvivere o meno, come lo si può spiegare al bambino?
Anche in questo caso è importante non provare a rassicurarlo con frasi del tipo “non ti preoccupare, poi torna a casa”, perché se non dovesse verificarsi, si perderebbe la fiducia del bambino. E lui non poi non avrebbe più figure di riferimento sulle quali contare. Si rischia quindi di aumentare il senso di sconforto e frustrazione e lasciarlo ancora più spaventato rispetto alla situazione che sta vivendo.
È meglio invece raccontare i fatti come se si stesse facendo una sorta di breve telecronaca, naturalmente utilizzando sempre i termini più appropriati. Bisogna tenerlo informato e, intanto, ricordargli che il genitore o il famigliare non ha paura delle sue emozioni, ma è lì proprio per ascoltarlo e rispondere alle sue domande. Si deve quindi puntare sull’ascolto attivo e sull’empatia.